Associazione in partecipazione e lavoro subordinato

 

Con sentenza n. 45257 del 14 dicembre 2005, la terza sezione penale della Cassazione ha affermato che commette il reato di cui all’art. 37 della legge n. 689/1981 colui che, alfine di non versare i previsti contributi previdenziali e assistenziali, abbia omesso di denunciare all’INPS il rapporto di lavoro subordinato di fatto instaurato con i lavoratori, nonostante che con essi risulti formalmente stipulato un contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato. La Corte ha affermato che per distinguere tra rapporto di lavoro subordinato ed associazione in partecipazione con apporto della prestazione lavorativa occorre, in concreto, riferirsi agli elementi caratterizzanti dell’una o dell’altra tipologia. Seguendo l’indirizzo delle Sezioni Civili, l’elemento caratterizzante che distingue l’associazione in partecipazione dalla prestazione subordinata è dato dal rischio d’impresa che, nella seconda, grava solo sul datore di lavoro, mentre nell’associazione non è limitato all’associante, ma si estende anche all’associato, il quale partecipa agli utili ed alle perdite dell’impresa. Da ciò ne consegue che “se da una parte l’associante conserva il potere di gestione dell’impresa, dall’altro l’associato ha un potere di controllo, al quale corrisponde un obbligo di rendiconto da parte del primo (art. 2552 c.c.) e che, quindi, il rapporto tra associante ed associato è di tipo collaborativi più che di tipo gerarchico, potendo il primo solo impartire generiche direttive ed istruzioni in ordine alla gestione dell’attività imprenditoriale, ma non disporre sanzioni disciplinari”. Al contrario nel rapporto di lavoro subordinato al datore di lavoro compete, in dipendenza del suo esclusivo rischio d’impresa, un vero e proprio potere disciplinare e gerarchico, mentre al lavoratore, che essenzialmente non partecipa agli utili ed alle perdite, compete una retribuzione in senso tecnico, come corrispettivo delle sue prestazioni lavorative. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha rilevato come i lavoratori “associati” erano, sostanzialmente, dipendenti in quanto percepivano una retribuzione oraria fissa, dovevano rispettare un orario di lavoro ed erano sottoposti, attraverso un fiduciario dell’imprenditore, ad un potere gerarchico, finalizzato al controllo di tutta l’attività lavorativa.

Da quanto sopra la terza Sezione penale ha accertato gli estremi materiali e psicologici del reato ed ha ritenuto che l’imputato, nella sua qualità di datore di lavoro, fosse tenuto a denunciare il rapporto di lavoro subordinato agli istituti previdenziali, cosa che non ha fatto proprio per sottrarsi a tale obbligo.

 

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