Consenso dei dipendenti per i controlli a distanza
Con sentenza n. 22611 del 11 giugno 2012, la terza sezione penale della Cassazione ha affermato che l'acquisizione del consenso, da parte del datore di lavoro, dell'assenso di tutti i dipendenti alla realizzazione di un impianto di videosorveglianza a distanza, realizza quanto previsto dall'articolo 4, della Legge n. 300/1970 e non occorre, quindi, né il consenso sindacale, né l'approvazione della Direzione territoriale del lavoro.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 17
aprile – 11 giugno 2012, n. 22611
(Presidente Squassoni –
Relatore Mulliri)
Ritenuto in fatto
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato -
La ricorrente è stata giudicata
responsabile della violazione dell’art. 4 L. 300/70 (c.d. Statuto dei
lavoratori) per avere, in qualità di legale rappresentante della soc. Flown
Energy, fatto installare un sistema di videosorveglianza composta da quattro
telecamere due delle quali inquadranti direttamente postazioni di lavoro fisse
occupate da dipendenti.
2. Motivi del ricorso -
Avverso tale decisione,
l’imputata, tramite difensore, ha proposto appello - convertito in ricorso dalla
Corte d’appello - deducendo:
1) insussistenza della
fattispecie criminosa contestata, sia nel suo elemento oggettivo che in quello
soggettivo. In particolare, si fa notare che il teste A. (ispettore del lavoro),
espressamente interrogato sul punto, ha escluso che, dagli accertamenti svolti,
fosse emersa prova dell’esistenza di un sistema di videosorveglianza
(funzionante o disattivato) che consentisse anche potenzialmente, di sorvegliare
i dipendenti. L’unico dato certo è relativo all’esistenza delle due telecamere
“puntate” su altrettante postazioni di lavoro.
Pertanto, pur essendo
sufficiente la mera potenzialità di controllo, è altrettanto vero che deve
esservi un impianto idoneo a creare il pericolo.
In ogni caso, è stata
accertata la esistenza di un apposito documento autorizzativo sottoscritto da
tutti i dipendenti dal quale non si può prescindere essendo esso espressione
della volontà dei lavoratori e del loro assenso alla esistenza di
quell’impianto.
Sul piano soggettivo, vale lo stesso ragionamento e,
cioè, che non si può ipotizzare che il datore di lavoro abbia dolosamente
preordinato di controllare illecitamente i propri dipendenti se ad ognuno di
essi aveva fatto firmare, prima della installazione, una liberatoria di consenso
ed, in ogni caso, il luogo di lavoro (v. dep. A.) era tappezzato di artelli che
indicavano la presenza della videosorveglianza.
Tutto ciò è tanto vero che lo
stesso P.M. di udienza aveva chiesto l’assoluzione della signora B., sia pure ex
art. 530 comma. 2. c.p.p.;
2) erronea applicazione della
pena. Si fa, infatti, notare che a pena pecuniaria per il reato contestato va da
un minimo di 154 € ad un massimo di 1549 € e che il giudice ha, invece, preso le
mosse da una pena base di 1800 € superiore a quel a edittale e, comunque, con il
riconoscimento delle attenuanti generiche, si è ingiustificatamente attestato su
una pena di 1200 € che va verso il massimo.
La ricorrente conclude
invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
Considerato in diritto
3. Motivi della decisione -
Il primo motivo di ricorso è
fondato ed assorbente.
L’inquadramento del fatto in esame non può che
avvenire prendendo come parametro di riferimento la fattispecie normativa. Sotto
questo aspetto, deve ricordarsi, perciò, che l’art. 4 L. 300/70, nel secondo
comma, precisa che impianti di controllo in ambito lavorativo possono essere
installati soltanto «previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali,
oppure, in mancanza di queste con la commissione interna».
Ciò posto, non può essere
ignorato il dato obiettivo - ed indiscusso - che, nel caso che occupa, era stato
acquisito l’assenso di tutti i dipendenti attraverso la sottoscrizione da parte
loro di un documento esplicito.
Orbene, se è vero che non si
trattava né di autorizzazione della RSU né di quella di una “commissione
interna”, logica vuole che il più contenga il meno sì che non può essere negata
validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei
lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza. Del resto, non risultando
esservi disposizioni di alcun tipo che disciplinino l’acquisizione del consenso,
un diverso opinare, in un caso come quello in esame, avrebbe un taglio di un
formalismo estremo tale da contrastare con la logica.
Ed infatti, l’interpretazione
della norma deve sempre avvenire avendo presente la finalità che essa intende
perseguire.
Se è vero - come è innegabile - che la disposizione di
cui all’art. 4 intende tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo
della loro attività da parte del datore di lavoro e che tale rischio viene
escluso in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi
(RSU o commissione interna), a fortiori, tale consenso deve essere considerato
validamente prestato quando promani proprio da tutti i dipendenti.
Siffatto modo di pensare non
è, del resto, neppure in contrasto con la enunciazione di questa S.C. (Sez. III,
15.12.06, Fischnaller, Rv. 236077) - secondo cui integrano il reato di cui agli
artt. 4 e 38 L. 300/70 anche gli impianti audiovisivi non occulti essendo
sufficiente la semplice idoneità del controllo a distanza dei lavoratori -
perché, infatti, anche in tale pronunzia, sì è sottolineato che ciò vale sempre
che avvenga «senza accordo con le rappresentanze sindacali»
Come a ribadire, cioè, che
l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del
bene protetto, esclude la integrazione dell’illecito.
A tale stregua, pertanto,
l’evocazione - nella decisione impugnata - del principio giurisprudenziale
appena citato risulta non pertinente e legittima il convincimento che il giudice
di merito abbia dato della norma una interpretazione eccessivamente formale e
meccanicistica limitandosi a constatare l’assenza del consenso delle RSU o di
una commissione interna ed affermando, pertanto, l’equazione che ciò dava
automaticamente luogo alla infrazione contestata. In tal modo, però, egli ha
ignorato il dato obiettivo (peraltro di provenienza non sospetta, visto che sono
stati gli stessi ispettori del lavoro a riportarlo) che l’odierna ricorrente
aveva acquisito il consenso di tutti i dipendenti.
Così facendo, la decisione
impugnata è censurabile per non avere interpretato correttamente la norma sotto
il profilo oggettivo ed analoga censura può essere mossa anche sotto il profilo
psichico una volta che si consideri che la piena consapevolezza dei lavoratori è
risultata provata, non solo dal documento da loro sottoscritto, ma anche dal
fatto che, come riferito dal teste A., «la B. aveva fatto comunque installare
dei cartelli che segnalavano la presenza del sistema di video sorveglianza”.
In ogni caso, però, l’assenza
dell’elemento oggettivo è assorbente per una declaratoria di annullamento senza
rinvio della decisione impugnata per insussistenza del fatto.
P.Q.M.
visti gli artt. 615 e ss.
c.p.p.
Annulla senza
rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste
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